Jazz Magazine - ALL ABOUT JAZZ Intervista a Peppe Consolmagno
Sono attratto dal suono, dal timbro, dal colore, tradotto in termini concreti dall'aspetto emozionale"
di Maurizio Comandini
All About Jazz: Peppe, raccontaci un po' come hai iniziato la tua carriera di percussionista e costruttore di strumenti musicali. Peppe Consolmagno: Sono nate praticamente insieme e l'una ha influenzato l'altra. Fin dagli inizi sono rimasto incuriosito ed affascinato dal suono, l'ho sempre considerato come un mezzo di dialogo e di espressione personale. Ho iniziato a suonare professionalmente non prestissimo, ma anche questo fa parte del mio percorso di vita. Da adolescente mentre gli altri giocavano io lavoravo, poi da più grande quando gli altri attaccavano lo strumento al muro, io lo incominciai a suonare seriamente. La manualità fa parte del mio carattere e l'ho sempre messa a frutto non solo nella musica, ma anche nella costruzione della mia casa, di parti dell'arredamento, della quotidianità. Non mi è mai piaciuto comprare uno strumento senza conoscere la sua storia, da dove viene, chi l'ha costruito, come lo si suona. Conoscere i materiali, le fibre e le possibilità che offrono, permette di fare da ponte tra l'esigenza strumentale e la parte creativa. La cosa secondo me più importante è sapere cosa si vuole, quale obiettivo ci si pone di raggiungere. Sono tempestato da email, telefonate e lettere di persone che mi chiedono come si costruisce l'udu, il berimbau ed altri strumenti. Il problema è che molti di loro vogliono la formula magica, che con poco impegno gli permetta di risparmiare soldi e tempo. Io stesso per costruire uno strumento ci impiego anni e spendo tanto denaro per poi arrivare al "mio strumento". Non si tratta di segreti, di formule, ma di esperienza, di conoscenza, di passione, di pazienza, di aver voglia di imparare, di saper accettare l'iter che si deve fare per entrare in confidenza con l'arte, la storia, la cultura e con le persone che la tramandano. Non a caso Nana Vasconcelos per primo, poi a seguire Cyro Baptista, Glen Velez, Trilok Gurtu ed altri mi hanno chiesto di costruire per loro i miei strumenti. Ti racconto un aneddoto curioso su Nana: Nana sapeva che costruivo i miei caxixi, io da parte mia sapevo che in un certo periodo i suoi erano arrivati alla fine, ma nessuno dei due chiedeva all'altro. Poi un giorno Nana mi telefonò e mi chiese se gli potevo fare i caxixi. La cosa strabiliante fu il fatto che me li chiese proprio il giorno dopo che avevo terminato la forma attuale, eccellente sotto ogni punto di vista, frutto di quindici anni di piccole variazioni.
P.C.: Mi fa piacere parlare più di quelle recenti, con l'augurio che possano prendere spazio nella memoria per lasciare un bel ricordo ed essere di stimolo alla creatività. Con Billy Cobham abbiamo suonato un brano insieme finito nel CD Kratos e Bia del gruppo Odwalla, del quale figuro come ospite da diverso tempo insieme al senegalese Doussou Tourré. Kratos e Bia, pubblicato dalla Splasc(h) è un bel lavoro, penso che sia il CD meglio riuscito degli Odwalla, registrato da un ottimo studio mobile al Teatro Giocosa di Ivrea in occasione del XXII Euro Jazz Festival di Ivrea nel 2002, in parte senza pubblico e in altra con il pubblico. Foto di Ruggero Lorenzi AAJ: E invece con i musicisti italiani? P.C.: Faccio parte di una nicchia nella quale ci sono difficoltà nell'incontrare tanti bravi musicisti di cui ti rimane un buon ricordo. D'istinto mi fa piacere parlarti di due personaggi con i quali sto ancora suonando. Col saxofonista Antonio Marangolo ad esempio collaboro dal 1990, tempi memorabili concretizzati con la partecipazione del Marangolo Quartetto Orizzontale al Festival Internazionale di Jazz di Montreal in Canada, e con un CD pronto da allora ma mai pubblicato. Sempre con Antonio venne pubblicato dalla Iktius Records il CD in duo Kalungumachine ancora oggi richiesto. Entro l'estate sarà ristampato per il decennale rinnovando la veste grafica per un'altra etichetta. Tra noi c'è una intesa formidabile, un CD come un concerto in cui l'estemporaneità e l'improvvisazione fanno da padrona. Con il pianista Giuseppe Grifeo è da un po' di anni che collaboriamo, sia in duo che con il gruppo Ishk Bashad, un quartetto molto interessante con il quale abbiamo partecipato al Festival Womad di Peter Gabriel Mouna Amari che canta e suona l'oud e il violinista siciliano Enzo Rao. La musica è estremamente stimolante e di qualità... infatti si suona poco. Suoniamo tutti acustici, con ampi spazi e rispetto del silenzio, questa cosa accade ovviamente anche nel duo. AAJ: Abbiamo avuto modo di ascoltare il tuo concerto a Maniago, in provincia di Pordenone, con la cantante brasiliana Cibelle, una delle nuove muse della musica sudamericana. Raccontaci come è andata. P.C.: Come ti dicevo è stata veramente una bella esperienza. Tutto è iniziato dalla telefonata di Giorgio Martelli dell'Agenzia piemontese Musica 90. Mi disse che Cibelle faceva un tour europeo che toccava Inghilterra, Germania e Italia. Una data italiana sarebbe stata quella al Teatro Verdi di Maniago in provincia di Pordenone per il Festival Vocalia dedicato alla voce ed alla percussione. Giorgio conoscendomi ha creduto subito che farmi suonare come ospite con il gruppo di Cibelle fosse una scelta indovinata. Un'altra coincidenza è stata che l'organizzatore del festival era da tempo che desiderava invitarmi al suo festival. Insomma già una bella e stimolante maniera di incominciare un'avventura. L'unico e non piccolo problema era quello che avrei dovuto incontrare Cibelle direttamente sul palco e la sera stessa suonare con lei. AAJ: Come sei riuscito ad inserirti così facilmente nel gruppo di Cibelle, senza prove e avendola praticamente conosciuta sul palco? Foto di Ruggero Lorenzi P.C.: Giorgio mi inviò il CD di Cibelle. Lo ascoltai a lungo. Cibelle canta in inglese e in portoghese, passa agevolmente dalla bossa nova all'elettronica, dai ritmi tropicali al samba, dal soul al post-rock, al jazz. Insomma tanti stimoli, ma anche tanti dubbi. I musicisti che avrei incontrato non sarebbero stati quelli del CD, la scaletta non la conoscevo. Ma avevo familiarizzato con la sonorità, con le dinamiche, e questo mi bastò. Quando ci siamo incontrati a Maniago, Cibelle mi fece vedere la scaletta, alcuni brani erano quelli del CD altri erano stati rivisitati, altri nuovi, l'avventura aumentava di intensità. Fortunatamente Cibelle è stata molto disponibile e carina così come lo sono stati i musicisti del suo gruppo. Abbiamo subito fraternizzato e ci siamo trovati a nostro agio, condizioni queste indispensabili per la riuscita di qualunque tipo di progetto. A completare il quadro fu il teatro colmo con i posti esauriti e gente rimasta fuori. Bella energia del pubblico, numerosi i bis. Ti confesso che mi ci voleva e per quanto impegnativo, ho suonato con molta scioltezza e libertà, mi sono stancato molto meno di tante altre situazioni, apparentemente pianificate. Certo inserirsi così di punto in bianco non è facilissimo, ma gli ingredienti per una buona riuscita sono: rispetto alle persone, rispetto delle idee, il non montarsi addosso, desiderio forte di integrarsi, il dialogo. E in quella occasione fortunatamente ci sono stati. AAJ: Nel concerto di Cibelle abbiamo avuto modo di apprezzare una delicata ed intensa versione di "Deusa do amor" (anche se Cibelle chiama questo brano "Olodun"), canzone della tradizione brasileira che già aveva avuto recentemente una splendida rilettura ad opera di Moreno Veloso con il suo progetto Moreno+2. Cosa pensi di Moreno e della sua visione molto moderna dei ritmi brasiliani? P.C.: Io e Moreno ci siamo conosciuti durante la sua prima tournee italiana, con il suo bassista tra l'altro ci eravamo conosciuti a Salvador de Bahia durante il PercPan (Festival internazionale delle percussioni diretto a quel tempo da Nana), al quale fui inviato per un paio di edizioni come giornalista. Anche lui come me era super impegnato a registrare e a fotografare. Poi il mio lavoro finì su diverse testate giornalistiche italiane e la registrazione (oltre 9 ore), la utilizzai, opportunamente ripulita e sintetizzata, per condurre una trasmissione in diretta per Rai Radio Tre a Roma. La cosa curiosa è che quell'anno il festival si chiamava Modernas Tradiçoes, tradizioni moderne. Come vedi. La vita va avanti, i tempi cambiano, i cicli terminano, l'idea di modernità attanaglia chiunque nella propria vita, le notizie arrivano in fretta, si conosce e si può conoscere tutto velocemente, quindi è normale che specialmente chi è piuttosto giovane misceli varie forme musicali, piuttosto che creare musiche con appena un po' di odore di etnico come spesso accade ancora oggi con un certo filone etno. Dire rock-etnico sarebbe più corretto. Si stanno imponendo sul mercato mondiale molti brasiliani che seguono la filosofia adottata anche da Moreno. AAJ: Quali sono i percussionisti e i musicisti in genere che più hanno contribuito alla tua ispirazione artistica? P.C.: La vita, la natura, i rapporti umani, sono stati e sono tuttora la mia vera fonte di ispirazione. Sono attratto dal suono, dal timbro, dal colore, tradotto in termini concreti dall'aspetto emozionale. Non a caso non parlo mai di effetti o rumori, ma di simboli. Questo è stato il tipo di approccio che mi ha guidato ad interessarmi di altri colleghi. È stato il suono, la maniera di porsi all'interno della musica a farmi conoscere Nana. Parecchi anni fa ascoltai piacevolmente per radio un brano, la mia attenzione veniva in realtà catturata da alcuni suoni e poi seppi che era Nana. La sua maniera di suonare, ha influenzato tanti percussionisti in tutto il mondo, me compreso. Ho ascoltato parecchia musica, oggi ne sto ascoltando molto meno, ho cercato di conoscere percussionisti famosi, non ho mai cercato di "studiarli", ma di conoscere le loro personalità e la loro professionalità, questo mi ha portato ad esempio a fare amicizia con loro, come nel caso di Trilok Gurtu, di Airto Moreira e Flora Purim, di Glen Velez o a intervistarli per dar loro modo di potersi raccontare come nel caso ad esempio di Nana Vasconcelos, Arto Tunçboyaciyan, di Cyro Baptista e di altri. Più in generale ho ascoltato e adorato tantissima musica brasiliana, sono legato anche alle musiche proposte da Manfred Eicher e consacrate nella sua etichetta ECM. Jan Garbarek, Ralph Towner, John Abercrombie, Pat Metheny, Don Cherry, insomma quelli che amano il silenzio e l'integrazione. Non mi piace essere troppo influenzato, mi piace apparire e distinguermi per quello che sono. Amo conoscere i contesti in cui andrò a suonare, capire chi e cosa troverò, se sarà confortevole, se si creerà una buona energia. AAJ: Qual'è lo strumento, fra quelli che hai costruito, al quale sei più affezionato? P.C.: Indicarne uno solo è un po' complicato. Di sicuro i caxixi, il berimbau e l'udu sono quelli a cui tengo particolarmente, con loro non sono mai in pace, sono sempre in cerca di verificare se vanno bene, se stanno bene, se sono adatti a qualunque situazione nella quale vengo coinvolto. Con l'udu, ad esempio, dopo varie ricerche sulla ceramica sono passato al vetro, stimolato da Nana che mi suggerì di provare a farlo come lui ha fatto, ma non ci si ferma mai, proprio in questi giorni dopo sette mesi di tornio e forni ho ri-preparato un grossa quantità di vasi in ceramica, da una parte per avere una scelta maggiore per avvicinarmi di più al "mio" strumento, dall'altra, più vera, per togliermi lo sfizio di aver sondato le varie possibilità che questo materiale e questo strumento permette di sperimentare. A dire il vero sono molto affezionato anche alle mie custodie tutte personalizzate e legate al ricordo di mia nonna materna insieme alla quale le avevo fatte. Come sono solito dire: non si inventa niente, in realtà ci sono alcune cose attinte dal mercato che oltre ad avere personalizzato ho totalmente stravolto: è il caso ad esempio del dumbek e del pecopeco. Al primo ho tolto la pelle e messo in risalto la sonorità bassa della coppa e quella metallica del fusto, usando mano e dita. Il suono è straordinario e non catalogabile. Il pecopeco è una soluzione altrettanto stravolgente, ho utilizzato un reco-reco brasiliano, che viene suonato strofinando le molle con una bacchetta, mentre invece io lo percuoto con due bacchette, sfruttando le varie parti suonanti, e con degli anelli che dialogano con loro. Per me non è importante suonare di per sé, ma dire sempre qualcosa che abbia un significato, che mi stimoli a prendere lo strumento in mano. Dopo tutto nessuno ti obbliga a farlo, c'è tanta gente che suona, tanto più che suonando non si diventa certamente ricchi. AAJ: Come si riesce a conciliare il dettato della tradizione con la voglia di innovazione? Te lo chiedo sia in riferimento alla musica, sia in riferimento alla costruzione di strumenti musicali. P.C.: Il proprio carattere, il rispetto della tradizione. Pur innovando tutto, secondo me si deve sempre essere religiosamente rispettosi della tradizione. È una cosa profonda. È un peccato dimenticare o peggio non considerare quello che già è stato fatto prima di te. Ti puoi sentire innovativo e invece scopri di essere solo una brutta copia... in sostanza si perde un sacco di tempo utile e si creano false illusioni. La necessità di concretezza per me è sempre stata forte, ti fa campare in maniera faticosa, ma è necessaria quando vuoi fare una cosa. Troppe persone hanno idee, ci sono persone che sono un fiume di idee, ma saperle realizzare e renderle speciali è un dono di pochi. AAJ: Per finire una domanda frivola: sappiamo che abiti a Tavullia, patria di Valentino Rossi. Che ne pensa il 'mitico' della musica brasiliana e del jazz in generale? P.C.: Non lo so: vive a Londra, oggi seconda patria del Brasile. Maurizio Comandini
(Giuseppe) PEPPE CONSOLMAGNO
Link in italiano: Home page | Biografia | Progetti | Didattica | Concerti Live! | Interviste | Stampa | Foto | Cd | News | Links English links: Home page | Biography | Projects | Teaching | Live Concerts ! | Interviews | Press | Photos | Cds | News | Links
|