RITMI
Intervista a Peppe Consolmagno
Multipercussionista, giornalista, etnomusicologo, antropologo, artigiano, cittadino del mondo: il Mahatma della percussione italiana è tutto questo e altro ancora. È un privilegio quindi ospitare nel questionario il punto di vista unico di Peppe Consolmagno, “uomo beato tra i suoni del mondo” come lo ha definito con acuta precisione Claudio Salvi, un artista poliedrico, indipendente nell’accezione più nobile e ampia del termine. Un essere umano autentico, che ha cercato e trovato dentro di sé, e che regala a tutti noi.
Come e quando hai iniziato a suonare le percussioni?
Non provenendo da una famiglia di musicisti e vivendo in una regione come le Marche, al confine con la Romagna, tutto sommato ricca di riferimenti folclorici ma a me strutturalmente lontani, mi sono messo alla ricerca di musiche e culture che potessero stimolare la mia sensibilità. L’ho fatto senza avere un’idea precisa di dove sarei voluto andare. Si è trattato dunque di un cammino lungo ed articolato, che non ha riguardato esclusivamente l'aspetto musicale. Potrei dirti che ho sempre suonato così pure che ancora aspetto di suonare. Che formazione didattica hai avuto? La mia scuola musicale è la scuola della vita. Si è trattato di un percorso decisamente autonomo. Nel cercare qualcosa di diverso, la curiosità è stata accentuata dal fatto che oltre tre decenni fa era molto difficile reperire dischi, materiali sulle culture musicali “altre”. Mi è sempre piaciuto invece tradurre, trasportare, mettere insieme, identificare, riportare nel mio bagaglio di esperienze per poi personalizzarle tutte le informazioni che acquisivo viaggiando, studiando, scrivendo. Mi sono sempre mosso con la semplicità e la coerenza, con la libertà e l’amore per la natura - i suoi colori, i sapori e profumi - con la manualità e il rispetto delle esperienze, con l’osservazione e il perfezionamento. Mi piace essere curioso, conoscere i materiali, le fibre e le tecniche di costruzione. E questi elementi li ho sempre utilizzati nella mia vita anche per la costruzione dei miei strumenti musicali. Il mio punto di partenza è stato il suono. Mi è sempre piaciuta la concezione orchestrale delle percussioni. Quando suonavo le prime volte, mi ricordo che mi veniva chiesto di eseguire certi timbri in determinati momenti che mi lasciavano piuttosto attonito, a me non piacevano affatto. Adesso posso parlare così, perché ho capito che la cosa importante è imparare ad ascoltare, così posso trovare il mio spazio, non importa in quale situazione, voglio essere libero, disponibile e senza pregiudizio. Chi sono stati i tuoi primi punti di riferimento? La vita, la natura, i rapporti umani, sono stati e sono tuttora la mia vera fonte di ispirazione. Sono attratto dal suono, dal timbro, dal colore, tradotto in termini concreti dall’aspetto emozionale. Non a caso non parlo mai di effetti o rumori, ma di simboli. Questo è stato il tipo di approccio che mi ha guidato a interessarmi ad altri colleghi. È stato il suono, la maniera di porsi all’interno della musica a farmi conoscere ad esempio Nana Vasconcelos. Parecchi anni fa ascoltai piacevolmente per radio un brano, la mia attenzione veniva in realtà catturata da alcuni suoni e da come venivano posti nella musica e poi seppi che era Nana. La sua maniera di suonare ha influenzato tanti percussionisti in tutto il mondo, me compreso. E ora? Chi sono i percussionisti, o più in generale i musicisti, che stimi maggiormente e che influiscono sul tuo approccio allo strumento e alla musica in generale? Ho ascoltato parecchia musica, oggi ne sto ascoltando molto meno, ho cercato di conoscere percussionisti famosi, non ho mai cercato di “studiarli”, ma di conoscere le loro personalità e la loro professionalità: questo mi ha portato ad esempio a fare amicizia con loro, come nel caso di Trilok Gurtu, di Airto Moreira e Flora Purim, di Glen Velez o a intervistarli per dar loro modo di potersi raccontare come nel caso, ad esempio, di Nana Vasconcelos, Arto Tunçboyaciyan, Cyro Baptista, Egberto Gismonti e di altri. Più in generale ho ascoltato e adorato tantissima musica brasiliana, sono legato anche alle musiche proposte da Manfred Eicher e consacrate nella sua etichetta ECM. Jan Garbarek, Ralph Towner, John Abercrombie, Pat Metheny, Don Cherry, insomma quelli che amano il silenzio e l'integrazione. Ricordi qual è stato il tuo primo ingaggio? Francamente no! Anche perché mi sono sempre mosso liberamente senza management sulla testa. Che strumentazione utilizzi? Sei endorser di qualche marchio in particolare? Gli strumenti che utilizzo sono in gran parte costruiti da me. Non mi sono mai riconosciuto negli strumenti musicali che esistono in commercio. Ho sempre sentito l'esigenza di un rapporto molto stretto con lo strumento. Ogni strumento ha una sua personalità, un suo suono, perciò bisogna innanzitutto capire come è fatto e cosa è capace di fare: è lo strumento che principalmente determina la musica! Da questi presupposti è scattata la molla che mi ha portato a costruire, a modificare, a migliorare gli strumenti di cui avevo bisogno. Ho sempre cercato di prendere una strada lontana dai cliché, dal business, per non dover mettere dietro al mio set nessuno striscione di nessuna ditta di strumenti musicali. Ogni scelta ha i suoi pro e contro, a volte si vorrebbero entrambi invece uno non va d'accordo con l'altro, bisogna scegliere. Fare l’endorser non mi ha mai particolarmente affascinato, o per lo meno non mi è mai piaciuta la gara/competizione che si instaura tra musicisti in questo tipo di meccanismo. Nonostante questa premessa, mi considero amico e sostenitore della Ufip e in particolare del grande capo Luigi Tronci. Utilizzo suoi piatti, anche originali di cui vado fiero, con un suono eccellente. Se nel mio cammino di ricerca incontro persone disponibili a dedicare il loro tempo, di offrire la loro esperienza per farla confluire nella mia, allora possono nascere delle cose belle e uniche. Anche se qualche mio strumento dovesse finire in qualche catalogo - ogni tanto si affaccia qualcuno interessato - cercherei di tenere le debite distanze dall’esibizionismo. Mi affascinano, oltre a dare una giusta collocazione ai miei strumenti, gli aspetti che ne derivano: viaggiare, conoscere persone, maturare esperienze. Quali credi che siano i punti di forza del tuo stile? Io sono un musicista che ama improvvisare e mi piace suonare con musicisti a cui piace fare musica senza compromessi. Cerco dove è possibile di andare oltre gli stili. Mi piace essere libero anche quando suono. L’improvvisazione è quello che fa la differenza nella musica. Improvvisazione vuol dire ispirazione momentanea, interazione con il pubblico e con gli altri musicisti. Vuol dire libertà, allargare le proprie idee musicali, formulare idee nuove. Sono attratto dall’aspetto creativo, dallo scambio di emozioni, dal suonare con persone aperte e disposte a mettersi in discussione. Saper riconoscere i propri confini e quelli degli altri, essere consapevoli dove finisce il tuo essere musicista e dove quello dell'altro. A me piace fare in modo che il suono che ho creato si possa riuscire ad ascoltare in contesti completamente diversi, portando la stessa emozione e soprattutto la mia intenzione. Mettere qualcosa in musica è un privilegio e si deve fare con grande dignità. Ho sempre pensato, e più tempo passa più questa idea matura, che il suono è il vero veicolo di emozioni. Quando in musica faccio cose sottili, faccio rifermento ai simboli, pertanto ai ricordi e alle esperienze. Per questo motivo non gradisco le parole, rumori e effetti. Che poi rumore è quello che disturba, ma cosa è quello che disturba realmente? Se il rumore lo si fa entrare in musica diventa suono e quindi ecco che tutto si ribalta. Mi piace l’idea di usare gli strumenti a percussione come un’orchestra. Dosare delicatamente i suoni e i timbri che hanno un carattere proprio mi ha sempre affascinato, mi permette di lasciare che gli strumenti possano, senza dover spiegare niente, “parlare per pensare” a beneficio del silenzio, del respiro, dell'improvvisazione, dell’apertura, dove il ritmo è necessariamente presente ma non prevaricante. Il silenzio ha un suo valore e va rispettato. Il silenzio in musica è la miglior musica. Basterebbe concentrarsi nell’equazione: più silenzio, meno note. Mi piace molto raccontare delle storie attraverso il mio lavoro, usare la voce come equilibro, il silenzio come musica, il timbro come emozione e il ritmo come pulsazione. Riesci a vivere di musica? Sono pochi i musicisti che vivono veramente di sola musica. Qualcuno fa diverse attività, altri vivono alle spalle di altre persone, esonerandosi da spese che fanno parte della vita di tutti i giorni e da quella che si chiama responsabilità. L’Arte nel nostro Paese, qualunque essa sia, se non produce tanti soldi non è considerata lavoro. Il fare musica viene considerato semplice divertimento. Non è lontano il periodo in cui capitava che qualche genitore osteggiasse il matrimonio della propria figlia con un musicista e tutto questo ancora fa sentire il suo peso. O sentirsi dire: “si ho capito che sei musicista… ma che lavoro fai?”... ce ne sono tanti di aneddoti. La differenza sta nel fatto che chi muove un pubblico di migliaia di persone, troverà sempre qualcuno disposto a occuparsi di lui, chi invece muove un pubblico più intimo, sarà lui stesso a doversi occupare di tutto. Questo non significa che uno è più bravo dell’altro, ma che ogni tipo di musica ha il suo pubblico, la sua vendita di CD, il suo cachet. La professionalità ha un costo molto elevato ed è giusto che venga riconosciuta in tutti i mestieri, intendendo per mestiere anche l’essere musicista. Non riesco a scindere l’uomo dall’essere musicista, quando salgo sul palco porto con me il mio mondo, la mia vita. È come dicevo prima, una questione di responsabilità. È difficile ed estenuante mantenere integra la propria coscienza e la propria coerenza In cosa sei impegnato al momento? E quali sono i tuoi progetti futuri? È appena uscito l’ultimo cd del flautista sardo Daniele Pasini, ispirato al concerto per flauto e orchestra di Jacques Ibert: si chiama Patatuey, titolo preso da una delle espressioni vocali che ha usato nei miei interventi, in cui suono io e ha partecipato anche mio figlio Leonardo che al momento della registrazione aveva sei anni. Patatuey è stato preceduto dalla pubblicazione del libro/Cd del Marangolo Quartetto Orizzontale, di cui faccio parte. Si tratta di un volume a due facciate: la prima dal titolo Come sto bene qui di Sandro Cappelletto corredata con le foto di Enrico Minasso, la seconda dal titolo Marangolo Quartetto Orizzontale con testi di Antonio Marangolo e Adolfo Francesco Carozzi corredata con le foto di Andrea Repetto e i disegni di Mirco Marchelli. Le composizioni sono tutte di Antonio Marangolo ad eccezione di “Picolé” che è mia. Diciamo che si tratta di un cd “maggiorenne”, perché ha aspettato quasi vent’anni per essere pubblicato. Ne è valsa la pena anche nella forma. Ho appena fatto dei bei concerti in duo con il saxofonista Antonio Marangolo con cui collaboro dal 1990. Mi auguro che vadano in porto per l’autunno i concerti con il gruppo Ishk Bashad (Giuseppe Grifeo, Mouna Amari, Enzo Rao ed io), un quartetto molto interessante con il quale abbiamo partecipato al Festival Womad di Peter Gabriel di cui è stato fatto anche un Cd. La musica è estremamente stimolante e di qualità. Continuo poi con la mia solo performance “Timbri dal Mondo”, un concerto che ho sempre portato ovunque con ottimi consensi. La volta che ti sei sentito fiero di appartenere al consorzio umano: ………… La volta che ti sei vergognato di appartenere al consorzio umano: La vita di tutti i giorni è molto frenetica, piena di stress e arrabbiature, condite spesso da arroganza e poca educazione. Il gruppo dei tuoi sogni sarebbe formato da te alla percussioni… (completa la formazione) Non ci ho mai pensato. Sono le coincidenze che mi piacciono, non forzando gli eventi. Il trio con Nana Vasconcelos e Antonello Salis, ad esempio, è nato per caso da una chiacchierata con Nana: lui mi propose di tentare di trovare qualche concerto in trio. La cosa andò in porto e furono fissate le date dei concerti. Non ci siamo mai accordati sulla musica che si sarebbe fatta e durante il primo nostro incontro in un’ora e mezzo stabilimmo la scaletta del primo concerto che facemmo a Roma. Risultato: ottima serata, fortunatamente registrata da cui derivò il cd per la Cajù Record. Creatività per creatività è quello che mi affascina e mi stimola ad andare avanti. Troppe persone hanno idee, ci sono persone che sono un fiume di idee, ma saperle realizzare e renderle speciali è un dono di pochi. Mauro Porcu RITMI Settembre 2010
Giuseppe) PEPPE
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